Sognando il ritorno. Una chiacchierata con Yasmine Hindi
Molte fedi nella preghieraAnna Marinoni
23 ottobre 2024
Incontriamo Yasmine in una giornata di tiepido sole d’autunno, una delle poche in questo mese di piogge. L’appuntamento è ai tavolini di Al Sultan, ristorante palestinese in piazza Pontida.
Tempo di scambiare qualche parola in attesa del pranzo e scopriamo che il proprietario, Rami, è il cognato di Yasmine. Dopotutto, come ci spiega, la comunità palestinese bergamasca non è grande: poche famiglie, ma molto unite. “Conosco tutti, ci conosciamo tutti” – dice Yasmine sorridendo – “Le relazioni sono un po’ diverse rispetto a come siete abituati in Italia. È importantissimo visitare le altre persone andando a casa loro, offrire il cibo. Per esempio, nel periodo del Ramadan vengono mio cognato, mio fratello e i suoi nipotini, un sacco di ospiti a casa. È un po’ come se fossimo un’unica grande famiglia.”
E Yasmine in una grande famiglia ci è nata. Ci racconta che fra fratelli e sorelle erano in dieci. Vivono tutti ancora in Palestina, in un piccolo paese montano vicino a Nablus. È questa la città dove Yasmine si è laureata in giornalismo e ha fatto qualche esperienza sul campo collaborando con la televisione e la radio dell’università. Ha anche lavorato per un anno all’UNIFEM, il fondo di sviluppo delle Nazioni Unite per le donne. Prima di scegliere di venire in Italia con suo marito: sono ormai sedici anni che sono qui a Bergamo.
Finiti gli ultimi bocconi di falafel, sorseggiando l’immancabile tè alla menta, iniziamo l’intervista.
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Secondo te come è vista la tua comunità dai bergamaschi? Che legami, che rapporti senti di avere?
Y: Abbiamo amici italiani a cui piace come viviamo, hanno partecipato al Ramadan e ad altre occasioni di festa. Ride. C’è anche qualcuno che mi ha chiesto come fare a trovare una moglie palestinese, perché era venuto a casa mia molte volte e ha visto come facciamo il cibo e le altre cose e gli piaceva. Però sarebbe difficile, perché le donne palestinesi sposano tipicamente uomini palestinesi.
Perché questa cosa secondo te?
Forse perché noi siamo molto vicini alle nostre famiglie. Nonostante tutto quello che succede nel mondo, e ci sono palestinesi in tutto il mondo, e ci sono anche tante donne che vanno da sole via a studiare però poi è difficile che si allontanino dalla comunità.
In Palestina hai quasi tutta la tua famiglia. Come va in questo periodo, riesci a comunicare con loro regolarmente?
Certo, abbiamo un gruppo Whatsapp in cui sempre scrivono, ci chiamiamo. Anche dove sono loro la situazione adesso è molto difficile. Vicino al paese dove vivono c’è un checkpoint. Mia sorella vive a Ramallah, per andare a trovarli deve aspettare ogni volta più di tre ore al checkpoint, e potrebbero anche rimandarla a casa. Ed è pericoloso: magari il soldato che è lì, in qualsiasi momento, potrebbe sparare a chiunque. E questo è successo, spesso. È pericoloso.
Ci dicevi che nell’ultimo anno, visto quello che sta succedendo, anche qui a Bergamo come comunità palestinese avete creato un’associazione. In cui ovviamente parlate di quello che succede in Palestina.
Sì, esatto, quando ci sono state le manifestazioni a Bergamo con altri gruppi siamo andati. E poi anche alcuni ragazzi italiani ci hanno chiesto di partecipare, e abbiamo cucinato cibo palestinese per raccogliere soldi da donare per la Palestina. E dopo alcune iniziative abbiamo iniziato a dirci che serviva organizzarsi meglio. Per esempio, volevamo sistemare meglio le cose in cucina quando ci sono le assemblee per la Palestina.
Nella comunità siete in tante famiglie giovani ma ci sono anche persone che sono arrivate qui quarant’anni fa. Cosa raccontano loro a chi arriva oggi, o comunque è arrivato dopo?
A tutti piace vivere in Italia, però tutti hanno voglia di tornare in Palestina. È così per tutti, non c’è nessuno, in nessuna parte del mondo – Italia, America, Canada, Cile… - che non dica questa cosa. Tutti hanno voglia di tornare. Non possiamo cambiare questa terra, terra santa - la Palestina ndr. -, per un altro paese. Però sento che l’Italia, anche per mio marito è così, è il nostro Paese. Non ci piace vedere che accadono cose brutte qui, in Italia. Però l’importante è che possiamo tornare in Palestina.
Come fai a informarti su quello che succede in Palestina? Leggendo le notizie dai giornali italiani ci rendiamo conto che l’informazione spesso non è affidabile, o comunque è parziale. Quali sono i canali che usi tu?
Sì, è vero. Anche io ogni tanto leggo degli articoli e mi viene da piangere perché, mamma mia, scrivono una cosa diversa. Io uso tanto i social, alcuni canali. Per esempio eyeonpalestine, o Al Jazeera. Noi dobbiamo seguirlo online perché in tv non ci sono canali che prendono qui. Oppure seguo anche i profili di alcuni italiani.
Tornando all’associazione. Quindi voi avete creato questa associazione per portare anche il vostro attivismo, la vostra voce a Bergamo.
Sì, è così. Ma per me non serve a molto. Ci sono ancora troppe poche persone. Servirebbero in piazza milioni di persone in tutto il mondo per cercare di fermare tutto quello che sta succedendo. C’è gente che parla, ma non siamo riusciti a fare niente. Anzi, sta peggiorando, adesso tocca anche al Libano. Le manifestazioni con così poche persone non bastano. Dobbiamo uscire in tutto il mondo in milioni e milioni, davanti all’Ambasciata israeliana, ai governi per fare qualcosa. Così è difficile. Ancora danno le armi, anche l’Italia. Anche gli attacchi diretti verso l’Onu, hanno detto due parole e poi basta, non se ne parla. Neanche quello fa effetto.
Penso sempre, cosa posso fare? Ma per me è come se ci fosse sempre un muro. Vorrei poter andare nella Striscia di Gaza ad aiutare, ma non posso, non posso fare niente. Ho provato a fare qualcosa come cucinare, che è una cosa semplice, però è difficile pensare a qualcosa che si possa fare davvero.
Secondo te, c’è un ruolo specifico che le donne hanno o possono avere in Palestina?
Per donne e uomini, è per tutti uguale. Non puoi fare altro che guardare quello che succede, le notizie sui social, ma anche quello è difficile.
Per esempio, mio fratello mi dice che se vedono dal telefono che scrive qualcosa contro Israele, possono controllare quello che scrive e possono metterlo in prigione. Dal 7 ottobre a oggi 10mila palestinesi sono stati arrestati così, solo per questo motivo. Oppure, se è installato Telegram sul telefono è un problema: non puoi usarlo. Perché sanno che lì si può pubblicare tutto. Quando passano da un chechpoint devono cancellare tutte le foto, tutte le cose. E possono anche inziare a picchiare tutti, al checkpoint. Poi tutti provano a mandare il materiale con i social, ma non è facile.
Quali sono dei valori che per te come palestinese sono importanti, da tramandare ai tuoi figli e alle persone e che senti ti possano far riconoscere come palestinese?
Per me, ci sono valori che valgono per tutti, non solo per i palestinesi. E sono la fiducia, la forza, il coraggio. Solo questo è importante per adesso. La mia famiglia mi ha sempre dato la fiducia e il coraggio di fare le cose. Quando sono uscita a studiare per esempio, a Ramallah, per fare dei corsi di lingua inglese o altro, mi hanno sempre incoraggiato. Anche quando sono venuta in Italia, mi hanno sempre spinto dicendomi di fare il master. Per esempio mia sorella lavora, è architetta, va in tutto il mondo. Anche lei è sempre stata fiduciosa e coraggiosa. In Palestina c’è la più alta percentuale di laureati, il paese con più persone che fanno la laurea, femmine o maschi. Perché questo dà a noi la forza per continuare. Nella mia famiglia tutti hanno fatto la laurea. È difficile trovare una famiglia in cui nessuno ha fatto una laurea. A volte è un po’ come se fra le famiglie si volesse fare una gara per vedere chi fa più lauree.
E l’ambiente dell’università come è, come era?
All’inizio era un disastro. Io abitavo in un paesino vicino a Nablus, dove c’era l’università. Fra il paese e Nablus c’è una montagna. Quando ho finito le superiori era il 2002, c’era la seconda intifada. Tutti le città erano chiuse. Quindi io per i primi due/tre anni dovevo andare in università a piedi passando dalla montagna. Mi ricordo in inverno, quando arrivavo con gli stivali tutti bagnati, con la pioggia, dovevo cambiarmi. Però dovevo studiare, non potevo sempre essere assente. E poi ogni tanto, al checkpoint ti dicevano che dovevo fermarmi per una, due, tre ore, ad aspettare che mi lasciassero andare. Quando gli israeliani hanno scoperto che andavamo dalle montagne hanno messo dei soldati in agguato per mandarci indietro, immagina che io e le mie sorelle dovevamo fare 4km e siamo state costrette insieme a delle coinquiline a prendere un’abitazione solo per stare vicino all’università. Non posso dimenticare queste cose.
Magari c’è qualcuno che capisce queste cose, che i palestinesi hanno il diritto ad avere il proprio paese, solo per noi. Le nostre terre. Della mia famiglia, hanno preso tutte le terre. Dove c’è qualcosa iniziano subito a costruire i loro kibbuz. Non hanno lasciato niente per noi. Anche adesso, che è il periodo di raccolta degli ulivi. I miei genitori hanno delle piante in sette posti diversi, ma possono andare solo in due di questi. E loro arrivano e prendono tutto. Questa è la situazione, non è solo da un anno.
Che ruolo ha la fede nel vostro affrontare questa situazione?
Io credo, non solo io, è quello che sento anche io, lo dicono anche i miei amici e le persone che vedo che scrivono, anche sui social. Noi crediamo che arriverà un giorno in cui in questa terra cambia tutto, e il nostro diritto torna a noi. Anche a Gaza scrivono la stessa cosa: abbiamo la fiducia e la pazienza in attesa che il nostro Dio venga a liberarci tutti e a uscire con la vittoria anche da questa situazione. Perché c’è scritto anche nel Corano che arriverà questo giorno.
Che futuro senti possono avere i tuoi figli qui?
Quando parlo con loro sono sempre molto fiduciosa, gli dico che siamo in Italia e che non c’è posto migliore per fare la laurea o un master. Per loro è un’occasione, soprattutto se si fa il confronto con quello che succede in Palestina. A Gaza è da un anno che hanno chiuso tutte le scuole, hanno chiuso tutto, hanno distrutto tutto. Non hanno lasciato niente, sono tutti nelle tende.
E che rapporto senti che hanno con la Palestina?
Il mio figlio grande segue tutti i giorni le notizie. Anche prima dell’ultimo anno. È successo anche diverse volte che ne ha parlato a scuola, ed è capitato che alcune maestre mi hanno chiamato, pensavo che fosse successo qualcosa di grave. Aveva semplicemente detto che il nostro paese, la Palestina, è sotto occupazione, ma la maestra non aveva accettato questa cosa. Diceva che doveva smettere di parlare della Palestina. Adesso mio figlio va al Mamoli, e lì mi ha raccontato che c’è una professoressa invece che gli chiede di parlare di quello che succede e lui torna a casa contento quando succede così. Se no si arrabbia, mi dice “ma perché parlano così? Perché non vogliono capire? Perché non mi fanno spiegare?”
Pensi che sia giusto usare la parola guerra per descrivere quello che sta succedendo in Palestina?
No, non è una guerra. E’ un genocidio. Quello che sta accadendo a Gaza o in Cisgiordania è resistenza. Ci sono delle armi semplici contro le bombe più potenti di tutto il mondo. Solo le popolazioni sono vicine, non i governi.
Qual è l’ultima volta che sei stata in Palestina?
L’ultima volta sono tornata in Palestina ad agosto del 2023, prima della guerra. Mi piace tornare sempre. Anche perché in Palestina quando entri c’è qualcosa che cambia tutto. Io, come Yasmine, mi sembra di volare in aria, nel cielo. Mi piace camminare nella città vecchia di Nablus. Anche l’anno scorso facevo decine di volte la stessa strada, dovevo farla.
Per quanto riguarda invece i rapporti con gli israeliani. Secondo te c’è la possibilità di un contatto con chi è contro lo stato sionista? C’è la possibilità di avere degli scambi?
Per me è molto difficile. Forse a volte nel lavoro succede. Ho sentito anche qualche storia di amicizia fra israeliani e palestinesi. Però sono poche, per quello che conosco. Però ci sono israeliani contro i sionisti, contro lo stato israeliano, che dicono che vorrebbero uno stato palestinese per tutti. Però non ci sono tanti contatti, a me non è mai capitato.
Io sono riuscita ad andare al mare solo una volta. Sogno di porter girare tutta la Palestina storica, ma sono riuscita ad andare in territorio israeliano solo una volta.
Anche i miei figli, abbiamo provato a fare il permesso per riuscire ad andare a vedere Gerusalemme. Hanno voglia di andare a vedere tutte le cose, le chiese, la moschea… Ma non hanno accettato le domande. Controllano tutte le cose che possiamo fare.
C’è tanta rabbia, è difficile entrare in contatto. Perché i nostri vicini, i più vicini rubano le olive, le nostre terre, tutte le cose che trovano le rubano. Non c’è fiducia.
E hanno ucciso mio fratello. Aveva quindici anni, non aveva armi, niente. Era in strada, aveva alzato una mano per chiamare un’ambulanza per il suo amico che era appena stato colpito in testa. Hanno sparato subito, al cuore. Non aveva fatto niente. Era anche un periodo abbastanza tranquillo, non c’erano scontri, la situazione era tranquilla, non come durante l’intifada.
E io non dimentico quel giorno. Io ho visto il nome di mio fratello a Al Jazeera, che scorreva nei titoli. Mi sono bloccata e ho detto no: nel mio paese – che è piccolo, sono 800 abitanti – conosco tutti. E continuavo a pensare chi altri si chiama così. Ho provato a chiamare ma non avevo credito sul telefono. E poi mi ha chiamato mio cognato, ha iniziato a piangere e ho capito che era lui. Avevo provato a non crederci.
Io sono riuscita a tornare ma solo dopo cinque giorni, quando avevano già fatto il funerale (noi musulmani non possiamo rimandarlo). Quindi non sono riuscita a vederlo. Appena sono arrivata subito sono andata al cimitero.
Le lacrime sono finite già da un anno. Spero che arrivi un giorno in cui cambia tutto per noi.
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Il bicchiere di tè di Yasmine è ancora pieno quando finisce di parlare. Pensiamo di non averle dato il tempo di sorseggiarlo con le nostre domande incalzanti, ma ci confessa che in realtà a lei, il tè, non piace. “Ed è un bel problema” – ci dice – “ogni volta che sono ospite di qualcuno provo a rifiutarlo ma è impossibile.” Nel salutarci, rimaniamo d’accordo per trovare un’occasione di assaggiare i prodotti del Panificio Gerusalemme, un’attività che ha aperto a Osio Sotto da un paio d’anni, insieme ad altri tre soci palestinesi. E noi, sinceramente, non vediamo l’ora.
Andando via, provo ad immaginare la figura di Yasmine che cammina, anzi, che vola leggera, per le strade di Nablus. E vorrei che il ritorno a casa possa essere per lei non più solo un sogno.
“Abbiamo dimenticato qualcosa alle nostre spalle?
Sì, abbiamo dimenticato il crepacuore.
Abbiamo lasciato in te il meglio di noi.
Abbiamo lasciato tra voi i nostri martiri
che vi raccomandano di fare bene.”
(Mahmoud Darwish, poeta palestinese)