La zona di interesse

La zona di interesse

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Redazione Babel

Redazione Babel

24 aprile 2025

/ di Tommaso Facchinetti e Alessandro Lancia

Regia di Jonathan Glazer, 2023

Genere: Drammatico, storico, guerra

Con Christian Friedel e Sandra Hüller

Come si rappresenta l’indicibile orrore? Come si narra il male quando il male stesso non è riconosciuto come tale? Jonathan Glazer, con “La zona d’interesse”, non solo riflette su queste domande, ma le estende a una riflessione più ampia sulla distanza - fisica, emotiva e soprattutto culturale - che lascia spazio, appunto, all’orrore.

Il film, ispirato all’omonimo romanzo di Martin Amis (2014), si inserisce nella tradizione del cinema sulla Shoah con un approccio tanto radicale quanto necessario: non mostra la violenza, ma la fa risuonare come un’eco costante dietro un muro di cemento e indifferenza.

Rudolf Höß (Christian Friedel), SS al comando del campo di Auschwitz, vive con la moglie Hedwig (Sandra Hüller) e i cinque figli, in una villa accanto al lager. Conducono una tranquilla e monotona esistenza, scandita da rituali domestici, giardini curati, picnic sulle rive del fiume Sola. Un idillio borghese che convive, senza mai interagire, con l’inferno oltre il muro. Qui sta la grande intuizione del film: Glazer non rappresenta direttamente l’orrore dello sterminio, ma ne mostra un equilibrio anomalo di banale quotidianità nell’ignoranza, noncuranza, e normalizzazione al di qua del muro. La cultura della morte convive con la cultura del benessere, lo sterminio con la tranquillità, e, dei due mondi in parallelo, la videocamera ha una visione asimmetrica: in un rapporto di dominazione silenziosa e assoluta, la bella vita della famiglia tedesca soffoca lo strazio dell’Olocausto.

“La zona d’interesse” è la storia di una atroce separazione. Il contatto tra la sfera nazista e quella dei prigionieri ebrei avviene esclusivamente attraverso il lavoro forzato, lo sfruttamento, il comando. Gli ebrei esistono come fantasmi ai margini della storia, intrappolati in un sistema che li riduce a ombre. Unico elemento di resistenza è una bambina polacca che, di notte, lascia del cibo per gli internati del campo: un gesto minimo, ma carico di significato, che introduce una forma di relazione alternativa, basata su un’empatia che appare impossibile all’interno del film.

La regia di Glazer è di un’oggettività spietata. Le videocamere fisse, posizionate come spettatori immobili e invisibili all’interno della casa, catturano le azioni senza giudizio, restituendo un senso di estraneità assoluta. È come se l’orrore non avesse autore, come se l’abisso della banalità del male si autoriproducesse senza bisogno di alcuna consapevolezza. Eppure, proprio in questa freddezza risiede la forza del film: “La zona d’interesse” è un’opera che non permette alcuna catarsi, nessun riscatto emotivo. Osserviamo una famiglia vivere accanto a un genocidio senza che questo modifichi in alcun modo la loro percezione del mondo, senza che la loro sacra quotidianità venga intaccata.

“La zona d’interesse” ci mette di fronte alla possibilità più terribile: una coesistenza che non produce contatto, ma solo sfruttamento e cancellazione. Il film ci costringe così a chiederci se la distanza tra gli uomini sia sempre colmabile, o se, come nella villa dei Höß, possa diventare un meccanismo di annientamento.

Glazer non ci offre risposte. Ci lascia, invece, con il silenzio assordante della complicità, con il rumore lontano degli spari e con il fumo che si alza oltre il muro, ignorato da chi ha scelto di non vedere. E in questo silenzio risuona una domanda che va oltre la Storia: quante zone d’interesse esistono ancora oggi, intorno a noi?


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