Consigli di lettura di Ottobre

Consigli di lettura di Ottobre

Mille mondi tra le pagine
Redazione Babel

Redazione Babel

23 ottobre 2024

Inauguriamo una nuova rubrica, in cui membri della redazione di Babel consigliano libri che hanno ritenuto particolarmente significativi e interessanti rispetto ai temi che trattiamo nella rivista.

I consigli di ottobre sono a cura di Lara Bortolai, Niccolò Valtulini, Annalisa Rossi e Anna Marinoni

Da “ALMA” di Federica Manzon (2024)

“A tavola trionfa la schizofrenia linguistica: la madre di Alma parla in lingua, come il resto della nazione, perché crede che così la vita sia più facile; il padre parla lo sloveno del confine, convinto che serva ai ragazzi per integrarsi nella terra di mezzo tra la città e il Carso dove sono finiti a vivere, ma poi scivola nel serbo-croato o nel croato-serbo che parla con un accento da ungherese; Alma per ripicca risponde nel dialetto della città e Vili, che pure impara ogni nuova lingua con facilità, usa lo slang di Belgrado che solo il padre di Alma decodifica. Si passano le parole come manici bollenti di una pentola, afferrare con cautela.”


Trieste non viene mai nominata in Alma di Federica Manzon, libro edito da Feltrinelli (gennaio 2024) e vincitore del Premio Campiello. Eppure, la città è l’anima inquieta di Alma, il suo luogo natale, dove, memore del ritornello paterno, ha cercato di non mettere radici, ma anche il luogo di un suo ritorno pasquale, la Pasqua ortodossa. È nella chiesa di San Spiridone – affollata da una comunità religiosa che dallo scorso febbraio 2022 sente lo squarcio della guerra che ha scoperchiato in Europa il vaso di pandora delle origini e delle appartenenze – che Alma sa di trovare Vili e con lui l’eredità del padre. Nei giorni che precedono l’incontro riviviamo i ricordi di Alma, che si aggrappano alla geografia dei luoghi come a cercare di saturare con i colori, i sapori, i toponimi e i capricci della bora dei buchi di silenzio, quelli dei non detti delle conversazioni familiari, delle reticenze di cui si appropria la stessa narrazione in un gioco di allusioni, di ombre tremule.


Da “IN ALTRE PAROLE” di Jhumpa Lahiri (2015)

“In un certo senso mi sono abituata a una specie di esilio linguistico. La mia lingua madre, il bengalese, in America è straniera. Quando si vive in un Paese in cui la propria lingua è considerata straniera, si può provare un senso di straniamento continuo. Si parla una lingua segreta, ignota, priva di corrispondenze con l’ambiente. Una mancanza che crea una distanza dentro di sé.
Nel mio caso c’è un’altra distanza, un altro scisma. Non conosco il bengalese alla perfezione. Non so leggerlo, neanche scriverlo. Parlo con un accento, senza autorità, per cui ho sempre percepito una sconnessura tra me ed esso. Di conseguenza ritengo che la mia lingua madre sia anche, paradossalmente, una lingua straniera.”

Quando Jhumpa Lahiri, appena laureata, compie il suo primo viaggio a Firenze, avverte fin da subito, nel suono delle parole e nel tono dei discorsi, una strana e inspiegabile aria di familiarità, che poi si trasforma in necessità e sete insaziabile di conoscenza. Tornerà poi molte altre volte nell’amata penisola, sempre armata di un vecchio dizionarietto, suo prezioso tascabile compagno di viaggio in quest’avventura di ricerca di sé e della propria voce. Molto tempo dopo, deciderà di compiere il grande passo e trasferirsi per qualche anno a Roma, per mettersi in gioco fino in fondo.
Questo libro, scritto direttamente in italiano da un’autrice bengalese naturalizzata statunitense, è proprio il frutto ultimo di quell’esperienza, risultato di uno sforzo espressivo artigianale sullo stile coltivato con pazienza certosina in anni di studio dei classici e apprendistato concreto nell’intrico vitale del labirinto romano. È soprattutto il resoconto di una storia d’amore e, come ogni storia d’amore che si rispetti, attraversa diverse fasi: colpo di fulmine iniziale, invaghimento crescente, lenta pazienza del corteggiamento, passione profonda e travolgente, asperità e contrasti, attriti e tensioni feconde per crescere, disincanto, concretezza del quotidiano, rapimento ossessivo...
Ogni pagina si nutre e trae forza da quella “distanza impercettibile e infinita del desiderio” che separa dall’oggetto d’amore - degna del miglior Barthes, perché anche questo testo si configura a tutti gli effetti come una raccolta di “frammenti di un discorso amoroso”, capitoli come tanti monologhi e riflessioni diaristiche, metafore del proprio corpo a corpo incessante e inesauribile con la lingua, che sanciscono anche altrettante tappe di un percorso di apprendimento e formazione. Una vera e propria “autobiografia linguistica” e, aggiungerei io, morale e sentimentale.
Perché è proprio in questa separatezza inconciliabile che si prefigura la possibilità di un’alterità, di un terzo spazio identitario non perché ereditato o imposto dalla necessità di integrarsi o dalle aspettative sociali, ma perché profondamente voluto e liberamente scelto, e portato avanti con fatica ed entusiasmo giorno per giorno. Per ridare valore al senso di sradicamento attraverso lo spazio ospitale di una lingua straniera, altra, che riesce ad assumere però una dimensione affettiva che vada oltre lo straniamento della madrelingua bengalese e il peso protettivo ma a volte asfissiante della ‘matrigna’ inglese.

Da “ALMARINA” di Valeria Parrella (2019)

“Un giorno Aurora aveva assegnato un breve compito di italiano. I ragazzi avevano svolto, e poi lei i compiti se li era portati nella stanzetta dove ci facciamo il caffè, dove chiudiamo tutto a chiave. [...] Dentro, chiusi a chiave qui dentro, dentro i fogli a righe che Aurora aveva distribuito loro staccandoli dalle spillette centrali di un quadernone, ci vennero conservati quel giorno certi loro ricordi. “Una cosa che mi è successa quando ero piccolo”, aveva chiesto Aurora, perché in carcere del presente non si parla, e il futuro non si immagina.”

Il carcere minorile di Nisida, che per alcuni ragazzi definisce i confini del mondo intero, rappresenta un microcosmo all’interno del quale si intrecciano colpe, paure, condanne, progetti e rinascite. È in questo spazio, all’apparenza chiuso ermeticamente rispetto al resto del mondo, che avviene l’incontro tra Elisabetta, insegnante di matematica, ed Almarina, giovane ragazza dal passato complesso e doloroso. Le due si vedono, si riconoscono e si legano indissolubilmente. Il rapporto che si crea tra le due donne permette ad entrambe, proprio nel luogo simbolo della prigionia, di liberarsi dal fardello del passato e di guardare al futuro con occhi pieni di speranza e fiducia. “Mi ha portato a vedere le piante medicinali del monastero, e io lì ho capito che c’era ancora tutto il futuro da fare. Non dico il mio, e nemmeno il nostro: dico il suo. Dico che ho visto la donna che sarebbe diventata perché era già tutta lì dentro, si stava preparando, stava tornando a nascere. Esterna a me, lontana dal suo passato, oltre la malattia dell’umanità che l’ha ferita, Almarina cammina su e giù per la metro fino all’università, fino al dipartimento di farmacia, con i mocassini sulle scale mobili, poi nelle aule, nei laboratori, tra compagne e compagni che di quello che c’era prima possono non sapere nulla.”

Almarina racchiude storie di emarginazione, di diritti violati e negati, di disuguaglianza, di diversità; raccoglie voci che non vogliono più essere zittite ed ignorate, ma ascoltate e comprese.

Da “GUERRA DI INFANZIA E DI SPAGNA” di Fabrizia Ramondino (2001)


“Credevano, i miei genitori, di darmi due nomi per ogni cosa, e non sapevano di darmi invece due cose per ogni cosa. Così il “cuscino” era buio e la “almohada” era luminosa; nel cuscino affondavo il volto per piangere, mordere o vedere il buio, mentre nell’almohada mi poggiavo per vedere colori e visioni. e poichè, a causa dei diversi nomi, ogni cosa non era una, ma due, potè ogni cosa in seguito diventarne molte insieme. Sicché il bilinguismo fu uno strumento e un veicolo per la mia fantasia, ma nel contempo contribuì ad alimentare la mania di sentirmi sempre offesa e derubata, quasi mi fossero continuamente strappate le cose più intime e care. Spesso infatti il nome di una cosa in una lingua impoveriva il il senso che le avevo dato nell’altra.”

Titita è una bambina curiosa e vivace che, a causa degli impegni diplomatici del padre, si trova a trascorrere i primi anni della sua infanzia sull’isola di Maiorca. È il 1937, in Spagna infuria la guerra civile e di lì a poco scoppierà un conflitto mondiale senza precedenti. Ma in quella bolla colorata e piena di sole che è Maiorca, Titita passa le sue giornate persa in una sua personalissima battaglia, un continuo incontrarsi e scontrarsi con tutto ciò che la circonda, a cominciare da se stessa.

Le esplorazioni nel lussureggiante giardino della villa in cui abita con la famiglia, i giochi e i travestimenti in compagnia del fratello maggiore Carlito, i rimproveri e gli insegnamenti dell’amata balia Dida; e poi i momenti di tenerezza con il padre, i ricevimenti formali organizzati dalla madre, i racconti sognanti della nonna in visita da Napoli: ogni giorno la piccola Titita scopre un pezzetto di mondo, trovando sempre più difficile conciliare, dentro di sé, il senso di libertà che percepisce nella natura con l’incomprensibile severità dell’universo adulto. In questo confronto, tuttavia, la sfida più grande sarà fare i conti con quel microcosmo segreto e sempre cangiante che è la propria individualità: gli impulsi, i capricci, i desideri, gli affetti, le paure che formeranno la sua persona.

Con una prosa ipnotica che mescola finzione a verità, sullo sfondo di un’isola che è prima di tutto luogo dell’anima, Fabrizia Ramondino compie un viaggio meraviglioso nell’interiorità di Titita, ripercorrendo le tappe e le contraddizioni di un’infanzia speciale. Guerra di infanzia e di Spagna è un classico della narrativa contemporanea, dalle cui pagine trapelano tutta l’originalità e lo straordinario talento di un’autrice che è riuscita a conquistarsi un posto di primo piano nel panorama letterario dell’ultimo Novecento.

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