L'epidemia degli invisibili

L'epidemia degli invisibili

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Redazione Babel

Redazione Babel

03 marzo 2021

L’epidemia degli invisibili

di / Andrea Pendezzini

Verso la metà dello scorso Marzo, nel constatare che l’Europa era diventata l’epicentro della pandemia di Coronavirus, il direttore esecutivo dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, Michael Ryan, ha espresso la necessità di una particolare attenzione verso quelle fasce di popolazione che, per vari motivi, sono invisibili: “Non possiamo dimenticare i migranti, non possiamo dimenticare i lavoratori senza documenti, non possiamo dimenticare i detenuti”.

Gli immigrati irregolari si trovano in una situazione di particolare delicatezza in questo periodo epidemico: spesso hanno paura di chiedere aiuto, anche se la normativa italiana in campo sanitario, tra le più avanzate a livello europeo, in linea con il dettato dell’articolo 32 della Costituzione, stabilisce il loro diritto all’accesso alle cure non solo “urgenti”, ma anche “essenziali” e dunque a tutte le prestazioni connesse al Coronavirus. In una prospettiva avanzata sia da un punto di vista etico generale, che da quello pragmatico della sanità pubblica, infatti, il primo comma del suddetto articolo - “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti” - rende quello alla salute, unico tra i diritti sociali, appannaggio non solo dei cittadini, ma di ogni individuo presente sul territorio nazionale. A questo proposito ci sembra significativo ricordare quanto affermato da Pietro Calamandrei in un suo discorso all’Assemblea Costi- tuente del 31 Gennaio 1947: “è un errore formulare gli articoli della Costituzione con lo sguardo fisso agli eventi appassionanti, alle amarezze, agli urti, alle preoccupazioni elettorali dell’immediato avve- nire[...]. La Costituzione deve essere presbite, deve vedere lontano, non essere miope.”

Il “saper vedere lontano” della metafora di Calamandrei, in effetti, è una qualità della nostra carta costituzionale e delle legislazione ordinaria che, pur dopo un lungo ritardo, dal 1995 parzialmente e in seguito pienamente a partire dal Decreto Legislativo 286 del 1998, da accesso alle cure mediche anche a cittadini stranieri “irregolari”. Chi sono queste persone? Solo in una piccola parte si tratta dei cosiddetti “clandestini” - persone entrate nel territorio nazionale senza permesso. Nella maggior parte dei casi essi sono soggetti entrati regolarmente in Italia, per lavoro, ricongiungimento familiare o per richiesta di protezione internazionale. Alcuni di loro, in certi casi dopo anni di vita nel nostro paese, perdono la legittimità di potervi soggiornare regolarmente semplicemente a causa dello stretto legame tra il possesso di un contratto di lavoro e la possibilità di rinnovare il proprio permesso di soggiorno in scadenza, introdotta con la legge 189 del 2002. Con la crisi economica iniziata nel 2008, questa disposizione legislativa ha portato molte persone regolarmente presenti in Italia a scivolare nell’irregolarità giuridica in ragione della precarietà lavorativa. Più recentemente rischiano di diventare irregolari anche quei cittadini stranieri che hanno presentato domanda di protezione internazionale all’ingresso in Italia: dopo i molti anni che spesso sono necessari per il completamento dell’iter giuridico per la richiesta di asilo, essi si trovano in alcuni casi ad avere una risposta negativa dalle istituzioni preposte alla loro domanda di protezione (commissioni del Ministero dell’Interno e Tribunali), dopo che altre istituzioni (Comuni e vari soggetti del privato sociale con fondi sempre del Ministero dell’Interno) hanno investito risorse ed energie in percorsi di accoglienza ed inserimento socio-lavorativo. Situazione questa paradossale, descritta ormai da numerose ricerche.

Gli “irregolari”, dunque, in una parte significativa sono persone relativamente inserite nel tessuto sociale dei territori dove vivono. Spesso in questi territori lavorano, anche se senza un contratto, impiegati nella ristorazione, settore duramente colpito dall’epidemia, o sfruttati nella campagne del sud come del nord della penisola per paghe da fame, soggetti ai fenomeni criminali del caporalato e della tratta. Ma lì possiamo trovare anche molto vicino a “noi”: nelle case dei bergamaschi come badanti degli anziani non autosufficienti, spesso impiegate “in nero” per ragione complesse ed eterogenee che non abbiamo lo spazio qui di analizzare compiutamente.

Abbiamo intervistato alcune persone facenti parti di quest’ultima categoria, in prevalenza donne: le abbiamo contattate tramite contatti personali, ma anche bazzicando tra le panchine intorno a Porta Nuova a Bergamo, luogo dove in certi giorni si ritrovano. Ci hanno raccontato la difficoltà della loro vita durate l’epidemia di Coronavirus, che ha ridotto e spesso completamente annullato quei già pochi spazi di socialità che avevano, nella giornate (o mezze-giornate) alla settimana libere da un lavoro che impegna sovente 24 ore su 24. Ci hanno descritto con garbo lo sforzo fatto per “cercare di dare tranquillità” alle persone che accudiscono, che spesso “vivono una vita di solitudine”. Della paura che ha colto anche loro badanti in questi mesi: “uno deve saper gestire la sua paura”. Non solo per sé stesse e per gli anziani curati, ma anche per i parenti, i genitori più spesso, che stanno al paese d’origine, dove le condizioni sanitarie li mettono a rischio di contagio, malattia, morte. Ci hanno raccontato la solidarietà tra amici e connazionali che condividono la medesi- ma condizione lavorativa, nei confronti di coloro che il lavoro lo avevano perso proprio a causa dell’epidemia. Del dramma dell’essersi contagiate insieme ai propri assistiti, senza sapere chi avesse portato il virus in casa: i parenti? I nipotini? Loro stesse?

Dell’umanità di alcuni datori di lavoro, figli o parenti degli anziani accuditi, ci è stato anche detto: qualcuno ad esempio ha prestato il proprio nome perché la persona che accudisce il genitore potesse comprare una scheda SIM (non è possibile farlo senza un regolare permesso di soggiorno) e uno smartphone economico, consentendo così ad una giovane badante di poter “incontrare” tramite videochiamata il figlio che non vedeva da molti anni. E’ stata commessa in questo episodio un’azione illegale? O forse esiste una giustizia superiore e più grande di certe leggi degli uomini? La stessa badante ci raccontava poco dopo della sua fiducia nelle istituzioni italiane, nel come stanno provando a gestire la pandemia, e ci ha raccontato che al suo paese di origine - la scorsa primavera - non tutti credevano alle notizie che arrivavano da Bergamo: lo hanno fatto più tardi quando si sono ritrovati i morti nella proprie case. La fiducia di questa giovane donna e il suo lavoro attento con una persona anziana e fragile non sono forse anche il frutto dell’umanità che come singoli cittadini, e come società nel suo complesso, siamo in grado da esprimere nei confronti di chi è oggi invisibile?

La giovane badante conclude l’intervista così: “basta dire una buona parola... ti può aiutare a vivere”.

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